top of page
Cerca
Immagine del redattoreSara

Non fate arrabbiare le fate

Aggiornamento: 1 mag



Avete tutti una bella opinione delle fate, non è vero?

Come ve le immaginate, in questo momento? A colorare il mondo con il loro tocco magico, a giocare con gli animali del bosco, a spargere polvere di bontà su tutti quanti?

Corretto. Così accade, alle fate che, fin da piccine, vengono cresciute con amore: hanno chiara la loro strada, non conoscono inganni, scoprono il loro grande potere da subito e ne sperimentano il benevolo effetto sulle cose. 

Tuttavia, ci sono fate e… fate.

Non a tutte è data la stessa sorte, signori. Oh no. Immaginate che gola, che brama possono esercitare questi esserini, che sono una potenziale esplosione di potere, nel mondo magico. Chi non ne vorrebbe una al suo fianco?

State attenti, però, a non farle arrabbiare.


***


“Se per ogni coccinella che vedo in questo prato avessi un sogno esaudito, dovrei riorganizzare completamente i miei cassetti.”.

La bicicletta appoggiata ad un albero e il plico dei compiti da correggere sulle ginocchia, mentre faceva queste riflessioni, godendosi il primo sole di Aprile e una giornata, stranamente, non piovosa.

Le coccinelle l’avevano sempre riempita di allegria. Eppure nemmeno il loro leggero ronzare, quel giorno, era riuscita a regalarle un sorriso. Anzi: si stava incupendo sempre più, pensando che, almeno loro, sapevano esattamente cosa fare: ronzare, portando qua e là la loro bombata corazzina allegra e puntinata.

Lei si sentiva, invece, come una coccinella che aveva perso sia il colore, sia i puntini.


La non piovosa giornata stava evidentemente volgendo al termine, a giudicare dai nuvoloni che iniziavano ad avanzare e, mentre il cielo si scuriva, esattamente come il suo umore, decise di tornare a casa, per evitare il temporale che sentiva prepararsi nell’aria.

Nemmeno il tempo di percorrere quei pochi chilometri tra la scuola e casa che le prime gocciolone avevano iniziato a picchiettare sulla sua testa.


“Almeno, tra poco, tornerà Paoul.”. 

Qualunque pensiero legato a suo marito le infondeva sempre un certo senso di tranquillità. Sentire il rumore della chiave nella toppa la faceva ancora sussultare, come cinque anni prima, quando avevano comprato la graziosa casetta fuori Amsterdam. L’avevano scelta per la posizione, per i prati colorati di tulipani tutto intorno e per la porta blu cobalto, intarsiata con scene tratte dalle favole dei fratelli Grimm. 

Qualunque cosa stesse facendo, al sentire quel rumore, Meggy la interrompeva, e si precipitava ad abbracciarlo. Anche quando erano arrabbiati. Perché, il ritrovarsi a casa, si erano promessi, andava sempre celebrato.

E, come ogni volta, nel fare scivolare la mano sul suo petto, sotto la giacca, si era soffermata, impigliando le dita sul bordo del taschino, per poi scivolarci dentro.

Faccia delusa ed imbronciata, seguita da sbuffo e vocetta: “Pfff, è vuoto!”, sorridendo, subito dopo. 

Un piccolo rituale che andava avanti da circa un decennio, dall’inizio del loro fidanzamento. 

Da quando lui, una sera, le aveva fatto trovare, nel taschino, un bigliettino con su scritto: “Ti amo”. Da allora, abbastanza frequentemente, Meggy trovava sempre qualcosa in quel taschino: un bigliettino, un pezzo trascritto di poesia, un cioccolatino, il biglietto per un concerto o il teatro, ciondolini… insomma: regali, per lei. 

Ma, quella sera, Paoul le aveva scostato le braccia e, allontanandosi, le aveva rivolto un brusco: “Meg, basta con questa storia! E’ da quando ti conosco che ti aspetti cose nel taschino! Che palle!”.

Meggy si era sentita morire. Poi aveva pensato fosse stata solo una brutta giornata, quindi aveva sorvolato. Tuttavia, prima di addormentarsi, il pensiero dell’accaduto l’aveva tormentata: era come se un patto fosse venuto meno. Lui doveva sapere che lei non si aspettava di trovare nulla, che era solo una scusa per ricevere un bacio, nel caso fosse stato vuoto; era solo la loro carezza, appena ricongiunti, dopo non essersi visti per un arco di tempo, durante la giornata. Come poteva averlo dimenticato ed essersi indispettito?

Non riusciva a prendere sonno. Non tanto per l’accaduto in sé, ma per la sensazione che avesse sbagliato qualcosa: l’ennesima cosa, in realtà. In effetti, cercando di ricordare, non riusciva a visualizzare l’ultima volta che il taschino era stato pieno. E nemmeno l’ultima volta in cui erano andati a teatro insieme o a cena fuori, cercando un nuovo bistrot da provare, o che le aveva dedicato una poesia. 

Da un po’ di tempo le sembrava di muoversi in un campo minato: Paoul aveva un po’ scansato le loro solite attività; avere a che fare con i ragazzi, a scuola, la metteva a dura prova; la galleria d’arte, cui dedicava il suo tempo dopo il lavoro, era in un periodo di stallo, quasi come se, improvvisamente, il suo celebre buon gusto nella scelta delle opere da trattare, fosse venuto meno; il circolo di lettura del giovedì, nel quale, attivamente, organizzava dibattiti sempre molto densi ed interessanti, si era svuotato. Insomma: aveva l’impressione che le cose che aveva da dire avessero poco appeal, in tutti gli ambiti della sua vita. Si era interrogata, senza sosta, su cosa potesse migliorare e aveva effettuato dei cambiamenti: nuove strategie per tenere viva l’attenzione dei ragazzi, nuovi artisti da promuovere, altri generi letterari, ma niente. E… ultima stoccata entrante? Ora anche le dinamiche del suo matrimonio? Era stato un duro colpo, carico di angoscia, per un neo nell’unica cosa che credeva non avere problemi. 

Cercò di aggrapparsi alla speranza che, dall’indomani, quella serata sarebbe stata solo uno spiacevole episodio da dimenticare in fretta. E, con questi pensieri, cedette, infine, al sonno, mentre la pioggia scrosciava fuori dalla finestra.


Purtroppo, però, così non fu.

Con il trascorrere dei giorni, nonostante il suo impegno per essere propositiva e tenere alto l’umore, i ragazzi erano sempre più indisciplinati e poco propensi ad apprendere nuove cose, la galleria d’arte era quasi sul lastrico, il circolo di lettura chiuse e… Paoul era sempre più distante.

Il cielo su Amsterdam era grigio da settimane e la pioggia primaverile era incessante quell’anno. “Questo tempo mi snerva.”, esordì, a tavola, Paoul. “Un po’ come te. Guardati: ormai non ne combini più una giusta. Pare tu abbia influenzato persino la natura: piove da settimane e i tulipani intorno a casa si rifiutano di sbocciare.”.

Meggy era sull’orlo di una crisi depressiva. Paoul aveva ragione: non ne combinava una giusta. Nemmeno con lui, che tanto amava, riusciva a essere radiosa come era sempre stata. Qualunque proposta gli facesse, suonava banale e noiosa. Aveva proprio ragione. 

Durante una notte, trascorsa nell’insonnia, come molte da molto tempo, prese una decisione: partire con uno zaino in spalla per una lunga passeggiata, forse, l’avrebbe ricaricata un po’.

Il periodo era propizio: gli ultimi giorni di scuola erano ormai alle porte.


E così fece: terminato l’anno accademico, una mattina, appena lui uscì di casa per andare a lavoro, gli lasciò una lettera con delle spiegazioni, sul tavolo della cucina, e partì. Per i primi tre giorni di cammino la pioggia fu una costante. Meggy non ne era dispiaciuta, anzi: le sembrava un’accompagnatrice fedele, ovattava il mondo intorno a lei e le dava occasione di dilatare il tempo. Il suo telefono era spento da quando era partita e non osava riaccenderlo. 

Nel mentre aveva visitato tre stupendi bed & breakfast e sia mulini che chiesette di borghi di cui non aveva idea dell’esistenza.

Aveva scelto un percorso trekking che aveva sempre segretamente voluto fare e si era stupita di aver trovato così tante persone, con lei, su quel cammino. Persone con le quali aveva iniziato dialoghi interessanti e vari: un’ottima compagnia di viaggio.

Si era, inoltre, stupita di aver trovato un tulipano rosso screziato di nero, sul comodino, ogni mattina al suo risveglio. All’inizio non ci aveva fatto caso, pensando fosse un’usanza delle strutture ricettive, ma al quinto giorno si era un po’ insospettita. Che Paoul sapesse del suo percorso e fosse un modo per chiederle scusa della brutta frase che le aveva rivolto? Eppure le sembrava alquanto improbabile: non gliene aveva mai parlato poiché avrebbe voluto farlo con lui e che fosse una sorpresa. 

Mentre cercava spiegazione a questo mistero, intanto, le giornate si erano rasserenate, la pioggia faceva compagnia al gruppo solo di tanto in tanto, soprattutto, aveva notato Meggy, nei momenti in cui si separava dai suoi nuovi amici. Sembrava quasi lo sapesse: quando era un po’ più in solitudine, e la malinconia bussava alla sua porta, compariva anche la pioggia. Davvero una strana combinazione, come a volerla proteggere ed accompagnare nella tristezza momentanea.


“Come va con le coccinelle?”, la voce di Ophelia l’aveva fatta riemergere dai suoi pensieri.

“Le coccinelle…?”, Meggy non si aspettava quella domanda.

“Sì, qualche giorno fa hai detto che ti piacciono molto. Ne hai vista qualcuna da quando hai iniziato il cammino?”.

“In effetti… no: nemmeno una!”, Meggy non ci aveva fatto caso. Eppure, di solito, le cercava in ogni luogo si trovasse.

“E… con i tulipani?”.

“Quali tulipani?”.

“Quelli sul comodino. Li trovi ancora?”.

“Scusa, ma quando ti ho raccontato dei tulipani?”.

“Alcune cose non si devono mica raccontare. Si sanno e basta.”. 

Meggy era molto perplessa. Le stava prendendo un po’ di inquietudine.

“Oh, no, cara, non volevo spaventarti: ti prego, non ci pensare adesso. Abbiamo appena iniziato la giornata, la pioggia sarebbe davvero inopportuna.”, e andò via trotterellando.

Meggy sgranò gli occhi e sorrise pensando che fosse del tutto matta. Ophelia era la personalità più stravagante del suo nuovo gruppo di amici, questo le era stato chiaro fin dalla prima occhiata. Una ragazza impossibile da non notare. Ma… quelle parole... Che fosse una… cosa? Indovina? Sensitiva? Meggy non sapeva cosa pensare. Era solo l'ennesima stranezza che si presentava durante la sua gita in solitaria che, in solitaria, non era più o, forse, non lo era mai stata. Anche per via di alcuni sogni che aveva iniziato a fare dall’inizio del suo viaggio e che vedevano protagonisti i suoi compagni di avventura. 

Ognuno di loro le ricordava qualcuno della sua vita. Ophelia, ad esempio, le sembrava sua nonna: una donna di grande forza e luce, una trascinatrice. Sempre di buon umore e con una chiara idea di come fare a dirigere qualunque cosa le fosse capitata. 

Jerry le ricordava suo padre: un uomo di grande cultura, un po’ timido e riservato, all’apparenza, ma con un mondo di conoscenza che condivideva con genuinità e senza arroganza, solo per il piacere di conoscere il parere altrui, accrescendo il suo.

Michael sembrava proprio Paoul: di una bellezza insolita, grandi doti comunicative e rapidità di pensiero. La sua occupazione era la filosofia (a differenza di Paoul che masticava numeri nella finanza) e aveva il fascino di chi sa addentrarsi in ragionamenti tanto effimeri quanto, al contempo, concreti.

April aveva tratti incredibilmente affini a sua sorella, nel suo parlare pacato, ma tagliente. Sapeva sempre cogliere l’esatto aspetto su cui fare leva. Era un’artista, una pittrice. E, chiaramente, le loro conversazioni vertevano, con grande entusiasmo, sulle opere d’arte nel corso dei secoli.

Nei suoi sogni ognuno di loro le appariva mostrando aspetti della sua vita che la stavano mettendo a dura prova, passando per rocambolesche avventure, ma lasciandole sempre un punto di vista positivo sul suo operato. Il sogno si concludeva sempre con il ricevere in dono un tulipano screziato di nero e una parte di ritrovata fiducia o, quanto meno, un nuovo modo di vedere le cose. 

Certo, al risveglio Meggy era sempre un po’ stordita da quei sogni, ma durante la giornata, parlandone con i protagonisti, sentiva di radicarne il significato e comprendere meglio l’aiuto che le era venuto in dono. 


Dopo venticinque giorni di cammino, arrivarono alla fine del percorso: era il momento di tornare verso casa. Sarebbe stato più comodo per tutti prendere direzioni diverse, tuttavia decisero di percorrere insieme anche la strada del ritorno, soffermandosi nei luoghi non visitati all’andata. Il gruppo che si era formato era davvero molto affiatato. Sembrava una piccola comunità itinerante.

La pioggia era, ormai, un ricordo lontano; i campi erano splendenti dei colori dei tulipani e, finalmente, erano tornate anche le coccinelle, con le quali Meggy si intratteneva ogni qual volta ne avesse l’occasione. E non solo, giocava spesso anche con farfalle ed api.

La sua mente sembrava più sgombra e leggera: le erano venute tante nuove idee per la didattica e per la galleria. Era anche decisa a rimettere in piedi il circolo di lettura, unendolo al teatro.

Anche i suoi sogni, improvvisamente, erano cambiati, sulla via del ritorno. I protagonisti rimanevano gli stessi, ma le dinamiche erano totalmente differenti: anzichè essere ambientati nella sua realtà quotidiana, vedevano scenari fantastici, che sempre avevano a che fare con il mondo delle fate. Meggy era una di loro e viveva meravigliosi giorni pieni di colore, nei quali si occupava dei piccoli animali alati e della pittura della natura. Era felice ed appagata, nei suoi sogni.


Man mano che i giorni trascorrevano, però, la sensazione di felicità della notte, si scontrava con la frustrazione del pensiero del rientro a casa. Sensazione che le era rimasta addosso e che era il motivo del viaggio intrapreso. Non sapeva ancora cosa avrebbe fatto una volta tornata e come avrebbe trovato suo marito. Era stata una lunga assenza, la sua. Più si avvicinava il momento e più i suoi sentimenti diventavano ingombranti. 

Anche la pioggia era ricomparsa. A sprazzi, dapprima e, poi, più costante.

Proprio mentre faceva questi pensieri, alcune nuvole avevano giustappunto popolato il cielo.

Fu allora, sotto un tetto plumbeo, che i personaggi dei suoi sogni le si riunirono intorno: “Mancano poche ore alla fine del nostro viaggio. Accendiamo un falò, ti va?”. 

Meggy annuì, entusiasta di quella parentesi con i suoi compagni di viaggio preferiti. “Però, cara, niente pensieri tristi: il fuoco non sta acceso sotto la pioggia.”.

Ophelia radunò dei legnetti e, con il solo battere delle mani, accese un fuoco vigoroso. Meggy era senza parole, mentre gli altri membri del piccolo gruppo sembravano del tutto non sorpresi.


Jerry intonò un canto celtico. Aveva una voce meravigliosa. Il fuoco prese a danzare con la sua voce. 

Meggy era a bocca aperta. E lo fu ancora di più quando anche Michael ed April iniziarono a danzare: erano bellissimi. Era del tutto all’oscuro che avessero quelle doti, loro che di doti ne avevano già dimostrate davvero molte, durante il cammino.

Mentre osservava, affascinata ed incredula, qualcosa la sorprese ancora di più: Ophelia muoveva le mani e, le ombre proiettate sulla terra, insieme a quelle di Michael ed April, presero vita, raccontando una storia. Meggy ebbe il sospetto che la avessero drogata. Una di quelle bravate da adolescenti intorno al falò.

Jerry accompagnava le ombre, cantando una storia sulla nascita delle fate, in un mondo assetato di magia. Raccontava di come le fate, talvolta, venissero rapite, non in modo brutale, ma nella loro età di passaggio, giovani donne. 

I maghi rapivano quelle fate che avevano tardato a scoprire i loro poteri, poiché nate in famiglie umane. Lo facevano in modo magistrale, celando le loro intenzioni sotto le mentite spoglie di una straordinaria storia d’amore. Ne utilizzavano, a loro insaputa, il grande potenziale inespresso: apparentemente per avere successo nella loro vita nel mondo non magico, ma, segretamente, per accrescere il loro potere come maghi. 

Talvolta, nel corso della loro vita, poteva succedere che le fate facessero accadere qualcosa di strano, come, ad esempio, attrarre piccoli animali, spostare delle cose, far comparire oggetti dai loro sogni o influenzare il tempo. Ma apparivano come coincidenze, dato che ogni energia liberata da quel potere veniva repentinamente attratta dal loro aguzzino. Fino a che l’energia della fata non fosse quasi del tutto esaurita: allora le allontanavano, non sapendo più cosa farne di loro. 


Quando la musica cessò, il fuoco si stava affievolendo e un gran freddo le entrò nelle ossa: Meggy era pervasa dalla tristezza. 

“E’ una leggenda molto cupa.”, osservò ad alta voce. Nessuno del gruppo osò dire nulla. 


Il gruppo si salutò e ognuno tornò alle proprie vite.


Il giorno dopo, ogni testata giornalistica riportava, in prima pagina, una tragedia: Paoul Bakker, nota figura della finanza, era stato ritrovato morto, nella propria abitazione, dalla giovane moglie, al suo rientro da un trekking con amici. 

Il pover'uomo era stato rinvenuto privo di vita a seguito di uno shock anafilattico, provocato dalle molteplici punture di vespe, di cui ne era cosparso il corpo. Probabilmente, a seguito del tentativo di estirpare un nido, senza l’aiuto di un professionista, il Sig. Bakker era stato aggredito e il suo corpo aveva reagito violentemente, senza dargli nemmeno il tempo di chiedere aiuto.


***


Avete tutti una bella opinione delle fate, non è vero?

Non si può tradire la fiducia di una fata, sarebbe davvero un gesto scortese.

Sono esseri di luce, nutriti dalla lealtà e dalle buone azioni.

Chi non ne vorrebbe una al suo fianco?

State attenti, però, a non farle arrabbiare.



-Sara-


Ti è piaciuto il mio racconto? Offrimi un caffè: https://ko-fi.com/saravagabonda






22 visualizzazioni0 commenti

Post recenti

Mostra tutti

Comments


bottom of page