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Le Maschere di Ginevra

Baffi folti, castani, girati all’insù. Mani grandi, ruvide. Corporatura solida, quasi statuaria. Occhi fermi e decisi: non c’è timore nel suo sguardo, solo una calma determinazione. 

Il volto è quasi del tutto coperto dal cappello a taglio classico in feltro, nero. Indossa un mantello, anch’esso nero, in velluto. Quando alza le braccia, per sfollare le persone dall’edificio in fiamme, scopre un completo grigio fumo, con doppiopetto, camicia azzurra e cravatta. Una cravatta davvero particolare: ha lo sfondo azzurro e una trama a nido d’ape con sopra tanti piccoli gigli bianchi ricamati a mano.

Sogno o realtà? Ben non lo sapeva dire. Quella notte, per lui, a soli dodici anni, terminò l’infanzia, perdendo una delle cose che più aveva care al mondo: l’amore di suo padre. 


***


Ginevra era sempre stata la sua città: era nato e cresciuto lì e amava persino le giornate in cui il vento, in riva al lago, era così freddo da dare l’impressione di poterti cavare via gli occhi e squarciare in due la faccia, come si fa con i documenti che non servono più.

A volte, mentre correva, si immaginava persino il rumore, simile a quello dei fogli di carta, con il suo volto. Ne rideva, persino, sapendo quanto fosse poco realistica.

Il giorno del suo venticinquesimo compleanno era uscito per la solita corsa mattutina. 

Aveva preso ferie, come ogni anno, ma non aveva nessuna intenzione di rinunciare alla sua sana routine giornaliera: arrivare, correndo, al grande lago di Ginevra, quella distesa d’acqua con un pennacchio, all’insù, verso il cielo. 

Come avrebbe voluto essere quel pennacchio e volare verso l'infinito.


Salta.

Un sussurro lo accompagnava da tutta la mattina. Da quando aveva scaldato il porridge e ne aveva constatato il suo essere più liquido del solito.

Salta.

Prima con una frequenza lunga, tra i suoi pensieri; poi, sempre più ravvicinata, man mano che proseguiva nella corsa. Pensieri che, quella mattina, erano indirizzati verso uno dei pochi ricordi che conservava di suo padre: una storiella che gli raccontava prima di farlo addormentare. 

La memoria gioca strani scherzi, soprattutto quando risale ad un periodo antecedente all’adolescenza. Non si sa mai qual è il confine tra quello che realmente è stato e ciò che è distorto, tra la fantasia e il sogno di ciò che avresti voluto fosse accaduto.

Ma questa era una cosa diversa. L’aveva sentita troppe volte per nutrire dei dubbi sul per filo e per segno: «Hai presente quel buonissimo frullato che prepara la nonna? Quello con i lamponi, i mirtilli, lo zenzero, e chissà che altro ci mette quell’adorabile strega? Sappi che quel frullato mi ha salvato tante volte. Una di queste fu quando mi ritrovai sulla sponda del lago e dovetti affrontare i peggiori mostri della mia vita.». Iniziava sempre così, quel racconto. Gli venne da sorridere per essersene ricordato, all’improvviso.


Salta.

La voce non sembrava abbandonarlo. Iniziava a domandarsi se fosse il caso di fare visita ad uno specialista. Era abituato a parlare tra sé e sé: sindrome di qualcosa di cui non ricordava mai il nome. Pareva fosse sintomo di chi pensa troppo e non riesce a contenere i propri pensieri. E va bene. Era stato catalogato come normale. Ok. Però, ora, addirittura sentire voci dispositive… 

I suoi pensieri tornarono in fretta a suo papà. Pensava sempre a lui, ma più spesso nel giorno del suo compleanno, chiedendosi se mai, un giorno, sarebbe ricomparso. 

Del resto, nessuno lo aveva mai dichiarato ufficialmente morto. Solo scomparso. Scomparso… Può davvero una persona scomparire? A quanto pare sì. Un concetto davvero complicato da accettare. Si usa la stessa dicitura anche per i morti. Ben aveva dedotto fosse solo la nomenclatura di ciò che concerne l’assenza di un corpo. Per questo aveva passato l’intera sua giovane vita immerso in interminabili ricerche incrociate tra medicina, chimica, fisica, fisica quantistica e spiritualismo, religioni, pratiche esoteriche e qualunque altra branca, della scienza e non, che potesse condurlo ad un modo per rintracciare dei corpi. O delle anime. Un modo per rintracciare suo padre, insomma. 

Era divenuto il più giovane e brillante studioso dell’università della città. Orgoglio incommensurabile per sua madre che, con suo stupore, non sembrava ossessionata quanto lui dalla scomparsa del marito. Ben aveva voluto darsi una spiegazione racchiusa ne “La forza della speranza”, sommata a tutte le cose di cui si era dovuta occupare, da sola, con un ragazzino di dodici anni da crescere.


Salta.

Più la voce incalzava, più Ben aumentava il ritmo della corsa. Fino ad arrivare, in metà dell’usuale tempo di allenamento, nella sua parte di lago preferita. 

Si tolse le scarpe e la t-shirt: la giornata lo permetteva.

La sabbia, sotto i suoi piedi scalzi, era di conforto: morbida, lo accoglieva e lo faceva accomodare ad ogni passo, gli accarezzava la pelle.

Aveva notato un chiosco, lì vicino: “Scusi, è possibile avere un frullato?”. Da un sacco di tempo non ne ordinava uno. “Lo vorrei: lamponi, mirtilli, zenzero e…”. 

“Se permetti, caro, faccio io il resto, visto che mi sembri indeciso”, la donna dietro al bancone aveva un sorriso davvero amabile. 


Che splendida giornata! Aveva fatto davvero bene a prendere ferie: il lago era una meraviglia di colori. E poi quel frullato era divino: sembrava quello di sua nonna! Avrebbe potuto giurare, se non avesse visto con i suoi occhi il contrario, che fosse stata proprio lei a prepararlo.

Salta.

Ben si godeva il sole sulla pelle. 

Salta.

Cercava di scacciare quella voce.

Basta farmi aspettare. Salta.

“Saltare dove? Dove dovrei saltare?”, alla fine sbottò, perdendo la pazienza.

Salta. Nel lago.

Di nuovo la storiella di suo padre:

«Il primo grande mostro fu la paura dell’acqua. Te lo immagini? Io, figlio di un pescatore. Come potevo dire a mio padre che l’idea di avvicinarmi, anche solo, al lago, mi faceva rabbrividire? Non riuscivo a smettere di pensare a quante cose, a me sconosciute, potessero esserci, lì dentro. Eppure, un giorno, sentii il richiamo dell’acqua. Pur restando per ore a fissarlo, prima di muovere un passo, alla fine, presi coraggio: deciso a sconfiggere una mia paura, chiaramente dopo aver bevuto il frullato di tua nonna, saltai nel lago.».

Ben, aveva due voci nella testa: quella sconosciuta, che gli intimava di saltare, e quella di suo padre, che gli raccontava, per l’ennesima volta, una storia a lui nota.


Salta. Come se non ci fosse l’acqua. 

Saltò dalla sponda, sorridendo, perché sapeva che l’acqua non era profonda. Eppure il suo corpo divenne pesante, come se avesse saltato da un trampolino; l’acqua gli fece spazio, facendolo cadere nelle sue profondità e il suo salto, da che doveva essere un balzo, come in una pozzanghera, divenne un tuffo a tutti gli effetti, nell’acqua che diventava, a mano a mano, sempre più scura.

Ebbe giusto il tempo di sentire la paura attorcigliarsi alla bocca dello stomaco prima di atterrare al centro di un cerchio. Senza acqua. Un cerchio di ombre e figure sfocate affatto sorprese del suo arrivo: lo stavano aspettando. Ben, invece, era stupefatto e incredulo. 


Nessuno gli rivolgeva la parola. Indossavano dei lunghi mantelli neri, cappelli e delle maschere, ognuna con colori differenti. Reggevano con la mano una torcia, con un fuoco blu.

Iniziarono una danza, senza permettergli di uscire dal cerchio, dentro al quale, insieme a Ben, erano comparse due grosse fiere, verdi, con i denti aguzzi: una libera ed una incatenata. 

«Il secondo mostro che dovetti affrontare fu un grosso leone verde. Era una bestia enorme, Benjamin! Il leone più grosso che avessi mai visto. Oh beh, non che io avessi mai visto un leone, in effetti. Allora, mettiamola così: un leone così grande che non avrei davvero potuto immaginarlo.».

Con la storiella di suo padre che continuava, nella sua testa, Ben stava ad osservare i due animali, inizialmente pregando che non si accorgessero di lui, visto che era totalmente disarmato.

Sembrava nutrissero un profondo astio l’una nei confronti dell’altra. Si ringhiavano e mostravano i denti con grande foga. La bestia incatenata aveva facoltà di movimento, ma assai limitata. Mentre la prima girava intorno alla seconda, studiandola, Ben ebbe chiaro che non ci sarebbe stata via di scampo per quella incatenata, seppur più grande di quella libera. 

Il primo attacco arrivò e fu abbastanza leggero. La bestia incatenata riuscì a schivarlo con abilità. Anche il secondo fu un attacco tattico, per testare la situazione. Ma la bestia libera, una volta compreso che il suo gioco era molto più facile di quello dell’avversario, non perse tempo e, senza tentennamenti, si preparò ad nuovo attacco, decisamente più brutale. Mirò al collo, balzando con una tale energia che, all’interno del cerchio, l’aria si spostò. 

Ben urlò: “Basta! Fate qualcosa! E’ una lotta impari! Non è giusto!”, e, nel mentre, corse verso gli animali, cercando di attirare la loro attenzione e rimandare un colpo letale. 

Le due bestie sparirono nel nulla. Ben era decisamente confuso. 

Al loro posto si palesò un vecchio. Aveva il volto rigato dalla sofferenza e mani sottili e rotte dalla vita. Si avvicinò a Ben con un breve slancio e poi chiese, sottovoce: “Ti prego, bel giovane, puoi aiutarmi?”.

Ben titubò un poco: “Non lo so, prima dovrei sapere di cosa si tratta. Ma, se potrò, sì.”.

“La mia nipotina si trova imprigionata da questi uomini malvagi. Aiutami a liberarla.”.

“Signore, io non so nemmeno come liberare me stesso… “

“Te lo dirò io, a patto che tu, poi, liberi anche lei.”

“Io… non…”

L’uomo si gettò in ginocchio, afferrando le caviglie di Ben, e, iniziando a singhiozzare, lo implorò, sussurrando: “Ti prego! Ti prego, aiutami! Devi rubare una delle loro torce blu e, poi, dare fuoco ad una delle maschere dello stesso colore. Si disgregheranno e, con loro, anche le loro prigioni.”.

“Signore, io… non ho mai fatto una cosa del genere. Né rubare, né tantomeno iniziare una carneficina. E, inoltre…”

Ecco di nuovo la storiella: 

«Il terzo mostro più grande che ho dovuto affrontare, sono stati gli impostori. Coloro che vogliono venderti la loro verità come quella assoluta. Gli scaltri che vogliono sfruttare le tue abilità per fare quello che non sono in grado di fare loro stessi; quegli sciacalli che ti spingono a compiere azioni brutali, in nome della libertà.»

“... Inoltre sono convinto che ci sia quasi sempre una ragione per tutto. Quindi prima troverò il modo di parlare con questi uomini, capire perché sono qui, perché vi è sua nipote ed anche lei e poi valuterò.”.

Il vecchio scomparve, allo stesso modo delle due fiere: sparendo nel nulla. 


Gli uomini intorno al cerchio interruppero la danza. Rimanevano figure quasi sfocate, ma una voce arrivò, nitida: “Ragazzo, sei un uomo d’onore. Che possedessi la sapienza, la scienza e l’intelligenza, già ci era noto. Oggi ci hai mostrato di possedere anche la fede, saltando nel lago; il coraggio e la giustizia, con le due fiere; la carità, ma anche la prudenza, con il vecchio impostore. Tutte nobili virtù. Quelle che occorrono per entrare a far parte delle Maschere di Ginevra. È un tuo diritto di nascita: deriva da tuo padre. Uno dei più valorosi mascherati. Il nostro compito, da sempre, è quello di proteggere la città. È un onore farne parte. E tu sei stato scelto per la tua tempra, Benjamin. Tuttavia manca una virtù.”.


«L’ultimo mostro che ho dovuto affrontare, il più terribile di tutti, Benjamin, sono state le ferite del mio passato. Quelle per le quali non c’era grande rimedio…».

Una figura ruppe il cerchio e si diresse verso Ben. Man mano che si avvicinava, diventava sempre più definita. Nel gesto di togliersi la maschera, lo scostarsi del mantello lasciò scoperto un completo grigio fumo, con doppiopetto, camicia azzurra e cravatta. Una cravatta davvero particolare: lo sfondo azzurro e una trama a nido d’ape con sopra tanti piccoli gigli bianchi ricamati a mano.

La storiella continuava, mentre l’uomo gli si avvicinava fino ad essere a pochi centimetri da lui: «… l’unico rimedio era nutrire, fortemente, la speranza di ricevere comprensione, compassione e, infine, perdono…».

Ora il volto dell’uomo era scoperto: “Ed è quello che chiedo a te, Ben, perdono, per averti celato una parte importante della mia vita. Per proteggere Ginevra, mi sono messo contro persone importanti. Sparire dalla vostra vita era l’unico modo per proteggervi. Potrai perdonarmi?”. 

Suo padre, il motore della sua incessante ricerca, era proprio lì, davanti a lui. 


***


Ginevra è una città molto particolare: una piccola bomboniera, in cui si respira un’aria frizzante, tra i merletti dei palazzi antichi, l’oro delle decorazioni e lo smeraldo delle cupole. Una città in cui l’acqua e il cielo si fondono, abbracciandosi. 

Austera, ad un primo sguardo, ma vitale e gioiosa, tra le vie. Si narra che, per preservarne la bellezza, un gruppo di persone, chiamato Le Maschere, ne protegga le vie, i suoi cittadini, la sua tempra e ne conservi il carattere. Indossano lunghi mantelli neri, cappelli di feltro e completi grigio fumo. Il segno che li identifica è una cravatta, azzurra, con una trama a nido d’ape, sulla quale sono ricamati, a mano, piccoli gigli bianchi. 

Ogni giglio rappresenta le virtù morali ed intellettuali. Più gigli sono ricamati sulla cravatta, più, chi la indossa, ha dato prova dell’utilizzo delle stesse virtù per il bene della città e il mantenimento del suo rigore morale.

Voci di corridoio, all’interno della prestigiosa università della città, sostengono che il Professor Benjamin Speller, noto ricercatore e docente in fisica quantistica, ne abbia una, colma di gigli, nel cassetto della sua scrivania. 


-Sara-




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