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Immagine del redattoreSara

Il patto di Stoccolma

Aggiornamento: 1 mag



“Arriva il buio, arriva il buio.”.

Ha uno scialle sulle spalle, a rafforzare un cappotto blu, sdrucito alle estremità. I calzettoni di lana escono dagli stivaletti, tinta cuoio. Le borse della spesa sono di stoffa, ma sembrano di carta per come sono consumate. Appesa all’asta in metallo dell’autobus, guarda fuori dal finestrino. Ha gli occhi cerulei e stanchi. 

Stoccolma scivola via, insieme all’asfalto sotto alle ruote, verso i giorni più lunghi e le temperature più miti. 

È Maggio, ormai. Tra poco il giorno sarà giorno anche la notte. 


“È buio, fa già buio. Arriva il buio. Sta arrivando il buio.”.

Nessuno fa caso a lei, sotto a quello scialle. Pensano tutti vi si ripari una vecchia pazza.

I capelli grigi, che spuntano dal cappello, sono un po’ spettinati. Il trucco è un po’ troppo vivace, questo è vero. E non è che proprio stia guardando fuori dal finestrino; è più come se stesse fissando un punto nel cielo. 

Una cantilena, pensano, in testa ad una vecchia squinternata che altro da fare non ha, se non girare in autobus per Stoccolma. Forse per stare un po’ al caldo, poiché parrebbe proprio che, una casa, lei non ce l’abbia. 


“Arriva il buio. Tra poco è buio.”.

Serra la mano sull’asta, le nocche diventano bianche. 

“Arriva il buio.”.

L’autobus rallenta. Apre le porte alla fermata. Lei rimane esattamente dov’è. Non la sposta nemmeno la spallata del giovane uomo appena salito.

“Arriva il buio.”.

Fissa il cielo. E’ un cielo indefinito. Non sa di Maggio. Non sa di sole, non sa di pioggia. Sa delle cose che non si sanno o, forse, di quelle che si sanno, ma che si ignorano, per nasconderle. Come i segreti, quelli che fanno rossore sulle guance, per la vergogna. 


Una donna, con una bambina, siede proprio sul seggiolino accanto all’asta di metallo. 

Sei anni o poco più. Una gonnellina crea balzelli su calze a maglia di lana, lavorate con rombi. Gli occhi vivaci hanno fame di conoscenza e, attraverso l’iride in movimento, fuori dal finestrino, conosce la città. 

La signora muove lo scialle, alzando la mano libera, quella che non sta aggrappata all’asta. Indica la bambina.

“E’ buio, fa già buio. Arriva il buio.”. Ora le voci sono due e sono all’unisono, appartenenti a due generazioni completamente diverse tra loro.


“Arriva il buio.”.

Guardano entrambe il cielo. 

La madre la chiama: “Mel? Melany?”, ma la bimba non risponde. Fa una smorfia, quasi a significare di non infastidirla, distraendola. Non si arrende, la scuote: “Mel? Cosa stai dicendo? Cosa guardi? Perché fai così?”

“Arriva il buio. Tra poco è buio.”.


Capelli raccolti e borsa ventiquattrore, tailleur gessato e cellulare collegato alle auricolari: un avvocato o un medico, si sarebbe potuto ipotizzare. Risponde con veemenza ad un interlocutore che, si intuisce, la sta incalzando. Si gira verso la vecchia e la bambina e alza gli occhi al cielo. La telefonata sembra non interessarle più.

“E’ buio, fa già buio. Arriva il buio.”. Le voci, ora, sono tre. 

No, sono quattro. 

E poi cinque. E sei. Sette. Otto, dieci. Non c’è donna, sull’autobus, che non si sia aggiunta al coro. Persino la mamma di Mel.


Stoccolma è ferma. Le auto e i mezzi pubblici sono immobili, sulla strada, sui ponti. 

Le porte si aprono, anche quelle delle case e dei locali: una processione di donne sta uscendo per strada. Ripetono tutte la stessa frase: “E’ buio, fa già buio. Arriva il buio.”.

A nulla serve richiamare la loro attenzione con strattoni, urla, prendendole di peso. 

Guardano, tutte, il cielo che non sa di sole e nemmeno di pioggia. Sa delle cose che non si sanno o, forse, di quelle che si sanno, ma che si ignorano. Come si fa con quei segreti, quelli che fanno rossore sulle guance per la vergogna.

Le radio hanno interrotto la trasmissione delle canzoni. Passano solo notizie dello strano fenomeno che sta avvenendo in tutto il mondo e della frase che si ripete: “E’ buio, fa già buio. Arriva il buio.”.


***


Stoccolma, 1600. È autunno.

I mercanti fanno affari a Gamla Stan. Si vendono cose di ogni tipo, anche la libertà. Sotto la chiesa, in costruzione, trovano spazio i peggiori farabutti, i disperati, i mercenari, le puttane, la povera gente e gli uomini onorevoli. Tutti, ma proprio tutti, passano per il borgo, accanto al cantiere della chiesa. Chi per fede e chi perché, la fede, non ce l’ha più.


Una donna, in elegante cappotto blu, sta contrattando con un mercante che arriva da lontano, o, almeno, così dice. Nessuno ha mai capito, davvero, cosa venda, nonostante ci sia sempre una lunga fila di gente intorno a lui. 


Lei è risoluta. Non vuole cedere nella trattativa. Lui è un uomo distinto, caratterizzato da rara bellezza e un non so che di sinistro. Indossa abiti di fattura elegante, porta i capelli, neri e ricci, lunghi. Gesticola, con ampi movimenti delle mani, mettendo in mostra un anello con uno stemma nero, in rilievo, e sollevando il pesante mantello, grigio scuro, che indossa.

La fila di possibili acquirenti si sta disperdendo. La trattativa dura da molto: solo chi ha una vera ragione per rimanere lo fa. 

“Quello che mi chiedi è impossibile.”. 

“Tu hai chiesto il prezzo. Il prezzo è questo, per quello che mi chiedi.”.

“Non è un prezzo giusto.”.

“Nemmeno salvare una vita destinata alla morte lo è.”.

“Non posso darti quello che mi chiedi. A cosa varrebbe salvarlo se non potrà compiere il suo destino senza la magia?”.

L’uomo e la donna duellano, a parole, mentre i loro corpi, stagliati su una Stoccolma in pieno foliage, sembrano danzare insieme alle foglie che volteggiano verso terra.

“Bisognerà trovare un compromesso. E sai quanto mi costa dirlo, strega.”

“Il compromesso non esiste nella follia. Il tuo è solo un subdolo piano, per avere ciò che non puoi avere o, almeno, non nella forma in cui lo desideri tu. Non era destinato alla morte, ma, questo, tu lo sai bene. E quello che chiedi non è destinato a te. Ma ebbene: vuoi la nostra magia? Sta bene. Quando l’ultimo dei miei eredi non sarà più in vita, la estrarrò per consegnartela, ma dovrai essere pronto a riceverla.”.

“Non c’è cosa più di questa che io non sia pronto ricevere.”.

“Perfetto. Siamo d’accordo allora?”.

“L’ultimo dei tuoi eredi. Poi sarà mia.”.

“Te ne pentirai.”.

“È una minaccia, strega?”.

“E come potrei, io, minacciare il Signore della Morte?”.

La donna, disinteressata alla risposta, allunga la mano, stringe la sua, sigilla il patto e se ne va, più rapida di un soffio di vento.

Il mercante riprende le trattative, tra lacrime e dolore.


***


Tutti sono scesi dal pullman, tranne lei. Lei è rimasta ben salda alla sbarra di metallo. Non ha più detto una parola, ma lo sguardo è rimasto fisso al cielo.

Tutti sono scesi dal pullman, tranne lui. Un uomo alto, distinto, con lunghi capelli ricci e un bellissimo anello all’anulare destro, con uno stemma nero in rilievo. È rimasto seduto, pochi sedili dietro alla sbarra in metallo.

“L’ultimo erede ha esalato l’ultimo respiro. Ti vedo ridotta male, strega.”.

“Rimanere salda, attraverso i secoli, ha richiesto parecchi sacrifici.”.

“Ne è valsa la pena? Ridursi in questo modo per tuo figlio? Credevi non ce l’avrebbe fatta senza la tua supervisione?”.

“Ho amato ogni cosa di lui, del suo destino, delle mie nipoti e di quello che hanno costruito, dopo di loro, i loro figli. Il mondo… in cui tu, ancora, cammini.”.

“Allora… forse credevi non avrei tenuto fede al patto?”.

“Tutt’altro. Dovevo assicurarmi che ricevessi la tua ricompensa.”.


Stoccolma non scivola più via, attraverso il finestrino; è immobile. E il giorno, che doveva essere giorno anche la notte, non c’è più. Il cielo, che non sa di sole e nemmeno di pioggia, ora sa di mare, ma di quel mare in tempesta, nelle ore più buie. Quelle ore in cui i marinai perdono la rotta, la stella polare e anche la speranza di vedere il nuovo giorno. 


“È buio. È buio. È arrivato il buio.”, dalla strada, la cantilena incessante.


“Cosa stai combinando, strega?”.

“Ti preparo la ricompensa. Immagino tu sia pronto a riceverla.”.

“Non aspetto altro.”.

Nel cielo si vedono le onde. Sembra si stiano per riversare sulla terra, che si sta aprendo, in profondi crepacci. 

Lui alza la voce: “Cosa stai facendo, strega?”.

La radio annuncia: in tutto il mondo, alcuni esseri umani sono, improvvisamente, caduti a terra, privi di vita. Così come gli animali.

“Ti consegno quello che mi hai chiesto: la magia delle streghe. Non è quello che volevi?”.

“Non mi prendere in giro! Cosa stai facendo?”, si è alzato e avanza verso di lei. Si ferma a pochi centimetri dal suo volto.

Lei, impassibile, ripete: “Ti do quello che vuoi: la magia delle streghe.”.

“Questo non è quello che ti ho chiesto.”, sbraita.


“Questo è esattamente quello che mi hai chiesto. La nostra magia è in ogni cosa: nella luce e nel buio, nella terra e nel cielo, nelle donne, come negli uomini, in ogni essere che popola questo mondo, in me e... anche in te. E, da ogni cosa, devo sottrarla, per consegnartela.”.

“Fermati, strega. Fermati!”.

“Il tuo desiderio è mutato, Signore della Morte?”.

“Mi hai ingannato.”

“Non ti ho ingannato. Ti avevo avvisato.”.


“Fermati, strega.”.


L’autobus è affollato. 

Stoccolma scivola via, insieme all’asfalto sotto alle ruote, verso giorni più lunghi e temperature più miti. Una bambina, con gli occhi vivaci, attraverso l’iride in movimento, guardando fuori dal finestrino, conosce la città. 

È Maggio. E il giorno si prepara ad essere giorno anche la notte.



Sara






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