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Immagine del redattoreSara

Un graffio vista mare




Tutto ebbe inizio in un pigro pomeriggio di Giugno, tra i vicoli che profumavano di salsedine.

Hector, stava passeggiando: cappello, modello panama, sul capo, scarpe comode, un blocco da disegno e una matita in mano.

Diretto alla spiaggia, dove amava attardarsi, per cercare ispirazione.

Quel giorno, aspettando che fosse il mare a suggerirgliela, si fece l’imbrunire e, in un attimo, comparvero le stelle.

Ma Hector nemmeno se ne accorse, perso com’era tra le linee della mina e la ruvidità della sua carta. E la luna, in un cerchio perfetto, pieno e rotondo, illuminava tanto da non rendergli necessario spostarsi per continuare a disegnare.

Eppure s’innervosiva sempre più: da tempo, ormai, sentiva che il sogno di divenire un vero artista gli scivolava tra le mani. Ogni cosa che disegnava gli sembrava piatta e banale. Non era quello che voleva esprimere, non era quello che sentiva di poter dare. E, una vera forma, alla sua immaginazione, non la riusciva a plasmare mai.

Hector, sotto a quella luna, iniziò ad imprecare, piangere, urlare. Maledisse la sua voglia di arte, maledisse il mare, le stelle e i pianeti, così poco benevoli con la sua ispirazione. Maledisse anche sé stesso, per aver creduto di potersi compiere, come artista; per aver creduto di poter cambiare il mondo, con la bellezza delle sue opere, quando, probabilmente, era solo un disegnatore mediocre, auto compiaciuto, ma senza reale dimostrazione del pensiero che aveva di sé.

Gettò i disegni in mare, prese a calci e pugni la sabbia. Si abbandonò all’autocommiserazione e decise che, dall’indomani, avrebbe lasciato perdere tutto e si sarebbe rimesso a studiare i motori delle macchine, come voleva suo padre. Poi, lasciandosi pervadere dalla tristezza, ed esaurite le forze per urlare ancora, si distese, sotto alla luna, con le lacrime che scivolavano via dagli occhi. Occhi chiusi, nella speranza di addormentarsi e svegliarsi nel futuro che aveva immaginato.


Lei, sotto a quella luna, comparve, sulla spiaggia. Regina nel suo mondo, la Dama di mezza estate, veniva nel nostro, per compiere le sue magie: esaudire i desideri e portare fortuna a chi la incontrasse. E, nel discendere dal suo mondo al nostro, nella notte designata per lei, come prima cosa, vide lui. Quell’uomo bellissimo, sdraiato, non sulla spiaggia, ma nella sua disperazione. Se ne innamorò. Un sentimento che non aveva una logica spiegazione, per lei che, regina dei sogni, non aveva mai sognato l’amore.

In lui, in quell’uomo, vedeva un tale ardore, per la sua arte, che la attirò, con una forza potentissima. Sapeva bene che, regina dei sogni, nel mondo della realtà, non avrebbe potuto rimanere a lungo. E, mentre si interrogava su come avrebbe potuto avvicinarsi a lui, Hector aprì gli occhi e la vide, interrogandosi, anch’egli, ma sul se fosse sveglio o stesse sognando.

Lei era un sogno. Un sogno? Sì, lo era. Ma non abbastanza da non permettergli di alzarsi, andarle incontro, prenderle le mani e sentire il profumo dei suoi capelli. Sapevano di boschi e fiori. E, al solo toccarla, la tristezza scomparve e quell’ardore, per la bellezza e per l’arte, tornò a bussare, spazzando via i pensieri sui motori e lasciando spazio solo ad una guizzante immaginazione, su tele più grandi di quelle a cui avesse, fino a quel momento, pensato. E poi arrivò un sentimento nuovo: non la solita curiosità, non il solito slancio di passione verso i punti di osservazione del mondo, no. Nulla del genere. Era più… un desiderio, un moto, commosso, per una bellezza mai vista; un’esplosione incontenibile che lo spingeva a voler tenere quella donna con lui, per sempre. E non se ne spiegava la ragione. Amore? Non lo sapeva. Ne aveva letto e sentito parlare, ma l’unico amore che avesse mai provato era per le sue matite e l’arte.

“Da dove vieni?”, fu l’unica cosa che riuscì a dirle.

“Non te lo posso dire, ma ora devo andare. Ci rivedremo, se saprai sognare.”

E la Dama scomparve, lasciando Hector sulla spiaggia, frastornato e rapito dall’inizio di una nuova vita.


Tornando a casa, tra i carruggi, passò per una piccola piazza. Un quadrato, lastricato di grosse pietre beige. Su di un lato vi erano due scalinate, parallele, che portavano in alto, a degli appartamenti e, al di sotto, davano riparo ad una piccola osteria.

In un altro lato, un’altra piccola scalinata che accompagnava la vista verso una porta in legno, con un cartello: “Affittasi”. Hector pensò che, dietro a quella porta di legno, lui avrebbe allestito la sua esposizione.

L’indomani mattina tornò nella piazza e bussò, per avere informazioni. La spuntò: prese in affitto il locale. Si sentiva come una pallina che rimbalza. Da un’idea ad un’altra, non sapeva quale mettere in pratica prima. E, ogni pensiero, rimandava alla donna che aveva incontrato durante la notte appena trascorsa. Sentiva che era presente, in ogni decisione che prendeva. Firmato il contratto, spalancò la porta della sua bottega. Vi mise dentro una brandina, dei cavalletti e delle tele e iniziò a dipingere. Per giorni non fece altro che dipingere e dirigersi verso il mare, nella speranza di incontrala di nuovo.

Un tormento, per non riuscire a rivederla, e una grande insoddisfazione, per i suoi quadri, lo accompagnavano. Era tutto incompiuto, era tutto senza fine.


Un mattino, proprio mentre, in un momento di ira, stava per rompere una tela, dalla porta aperta della sua bottega, s’intrufolò un gatto. Con fare molto deciso, si andò a sedere sul davanzale, proprio accanto ad uno dei cavalletti.

Hector fu incuriosito e, per tutto il giorno, guardò il felino. Si perse nelle forme. Studiò l’antitesi tra la tela, fatta di rette, e il gatto, fatto di cerchi.

E così il giorno successivo e quello dopo ancora.

Il gatto stava lì, sul davanzale, in posa. Ogni tanto si leccava le zampe e scopriva le unghie, per stiracchiarsi.

Hector era rapito, come in una meditazione.

I suoi pensieri vagavano, leggeri. Di base, il brusio di fondo era volto alla donna misteriosa; nel concreto, scendeva, e si addentrava, in riflessioni sull’attesa. Più cresceva il dolore per l’assenza di un incontro, più s’immaginava di dipingere tele che lo rappresentassero; più guardava il gatto, sulla finestra, più si convinceva che, in qualche modo, potesse prendere parte alla sua arte.

E, così, tra un pensiero sul mare e uno sull’infinito, percorreva vie che lo portavano sempre più a credere che, rivisitare il colore e lo spazio, fosse l’unica soluzione.

Si alzò e prese i pennelli. Scelse una tela quadrata. La riempì di rosso, spalmandola, spatolandola, con gesti solidi e solenni. Sì sincerò che la densità del colore fosse percettibile, che avesse vita.

E, poi, quando il colore lo permise, squarciò la tela in più punti. Fece tagli precisi e paralleli, come il graffio di un gatto. Voleva se ne sentisse il dolore, mentre il taglio apriva il varco per la vista su un mondo nuovo, oltre la tela.




Sicuramente nessuno, ad Albissola Marina, ricorderà un uomo con un gatto.

Una gatta, veramente. Talmente compatta, muscolosa e risoluta, da sembrare un gatto. Non un gatto qualunque, no. Più una tigre domestica o una regina.


L’uomo era un artista. Ma, prima di essere un artista, fu un sognatore, un po' disorientato, che ancora non sapeva che sarebbe stato un pittore, uno scultore, un distruttore.

Prima di divenire un artista non avrebbe creduto, glielo avessero raccontato, di come, uno squarcio, si tramuti in finestra sul mare. Non poteva sapere che avrebbe visto scintillare il suo cuore e poi lo avrebbe sentito affondare, come una nave, risucchiata, brutalmente, verso il fondo. Quel fondo dimenticato dalla superficie, a cui nessuno pensa, assaporando la vita. Eppure, di vita, è pieno, trabocca, gorgoglia. Come una moka, quando spinge, verso l’alto, il caffè, che è energia per trasformazione; che muove, dal calore, il trasparente ad unirsi al nero, e riempie, del profumo del mattino, l’intera abitazione.

Abitare e vivere, un mestiere che avrebbe imparato, a fatica. Soprattutto quando, per abitare, s’intende camminare, nel cuore, nella mente e tra le dita di una donna. Una donna o un felino? Un sogno o una regina? Qual è, poi, la differenza? Chi lo sa? La cruda voracità per la vita? La precisione d’intenti? La velocità dell'attacco? L’ispirazione giocosa? La solennità del riposo?

E, se, ondeggiando con la coda, altro non facesse se non dirigere un’orchestra? Allora è un Maestra? Una Direttrice?

Ah, ma che importa! Ciò che importa è che, ciò che si squarcia, apra la via della vista sullo sconfinato mare. I baffi lunghi e le striature, tendono all'infinito; quell’infinito che si ripiega sul mondo, come un labirinto, per tracciare sentieri che, incrociandosi, creano nuove vie e, da quelle vie, come ruscelli, tutto torna a tuffarsi nella distesa dell’acqua che bacia l’aria del cielo. E, dal cielo, verso l'infinito si muove, e ricade, nelle striature del manto di un felino.


Lei diventò gatta. Ma, prima di essere una tigre domestica, fu il suo grande amore.

La si vedeva girare, nella piccola piazza, con un portamento elegante. Quando riposava, allungata sulle mura di pietra, mezza al sole e mezza all’ombra, nessuno avrebbe saputo dire se, veramente, dormisse oppure se, piuttosto, non stesse ascoltando, con ironia implicita, le conversazioni di questo, ma anche di quell’altro mondo.

Quale altro mondo, chiedete?

Quell’altro. Quello che le faceva drizzare le orecchie e fremere le vibrisse; quello dei sussurri e dei segreti. Quello dell’artista, del turbamento, delle gioie viscerali e dei

subbugli celestiali. Quello delle emozioni, che provengono dalla luce e quello degli spiriti che dalla luce sono attratti, ma, talvolta, vivono nell’ombra dei ricordi.


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