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Immagine del redattoreSara

L'Errante



Al ponte che conduceva a Castel Sant’Angelo vi arrivò in un inizio pomeriggio di quello che, un tempo, avrebbero chiamato Settembre.

Il tempo era instabile: un attimo pioveva, l’attimo dopo il caldo gli faceva prudere la pelle sotto ai vestiti. Ma lui era un “Errante”, era abituato a tutto questo. Si era abituato anche a non conoscere più le etnie e i popoli.


Il Mausoleo di Adriano era tutto quello che rimaneva di Roma, della sua proclamata gloria e della sua antica storia.

Sì fermò a guardarlo e si chiese come doveva essere stato aver abitato, un tempo, lì. Quanto doveva essere stata diversa la vita prima dello spaccato tra le città azzurre e le città rosse? Non riusciva ad immaginarlo. Non appieno, almeno.


Intorno a lui non c’era nessuno. Gli venne voglia di sedersi, un momento, davanti ad un pilone con sopra una statua alata: gli mancavano una gamba ed entrambe le braccia. Anche le ali erano spezzate. La guardò, con un po’ di tristezza.

Poi toccò la pietra: come da consuetudine, gli parlò. No, non un discorso vero e proprio, più una comunicazione profonda, fatta di immagini, sensazioni e brusii. Un fotogramma: la statua era illuminata dal sole, al punto da risultare dorata. Una fiumana di gente camminava, verso il Castello: alcuni ridevano, altri chiacchieravano, altri litigavano, altri discutevano di temi importanti come la religione, la storia, la filosofia. Era la vecchia civiltà. Lui sorrise. La felicità lo invadeva sempre quando i resti del passato gli aprivano le porte del tempo, svelando cose da lui mai vissute.


Si alzò e decise di entrare. Magari l’interno gli avrebbe mostrato altro, nutrendo la sua curiosità, impreziosendo la sua conoscenza. Era così affascinato dalla Vecchia civiltà: gli sembrava così colorata…


Nel varcare l’arco, dove, immaginava, vi fosse stata una porta, ebbe la sensazione di non essere più solo, nonostante non vi fosse il benché minimo rumore.


L’interno era maestoso quanto l'esterno. Pensò potesse essere un buon riparo per una notte o due. Così girovagò, prima all’interno delle mura, poi dentro, tra le rimanenti stanze, alla ricerca di un posto in cui accamparsi.

Era la prima volta che vedeva degli affreschi. Con il volto al soffitto, nel lasciare lo sguardo scorrere tra le volte, pianse. Una tale bellezza… nemmeno le città azzurre la possedevano. Nulla a che vedere con le città rosse: caotiche, in continuo cambiamento, a volte un po' abbozzate, affatto curate. La bellezza delle città azzurre risiedeva nel loro essere solide, ricche, lucenti, con fini decorazioni e cura in ogni dettaglio, ma, nelle pennellate di quelle mura, gli si presentò l’arte. Gli tese la mano e gliela strinse, con una presa che gli arrivò dritta allo stomaco, per irradiarsi al cuore e uscire dagli occhi. Un pianto di celebrazione, il suo. Davanti alla meraviglia di una perfezione classica, sorrideva e piangeva, chiedendosi come avessero potuto permettere che tutto questo andasse distrutto.


Un rumore. Un brivido gli corse dietro la schiena. Un mantello azzurro cadeva dalle spalle di un cavaliere mascherato.

“Ti prego, no. Dimmi che non è verò”, pensò.


«Un Errante!», esordì, quasi prima di fargli terminare il pensiero. Il suo tono era gioioso.

«Un Cavaliere della Città Azzurra… non pensavo aveste la facoltà di allontanarvi così tanto.».

«Solo per giuste cause.», disse, ridendo.

«E la tua quale sarebbe?».

«Ripulire.».

«Vi hanno eletto a spazzini? Va tutto troppo bene nei vostri eremi di cristallo?».

«E’ al di fuori che non va bene. Troppi Erranti in giro, pronti a intrufolarsi e a contaminarci.».


“Ma perché? Perché a me? Volevo solo riposarmi due notti…”, stava scivolando un po’ nello sconforto.


«Non è mia intenzione entrare nelle vostre città, cavaliere. Lasciami riposare qui, un paio di giorni, poi tornerò in viaggio.».

Scoppiò in una risata: «No, Errante. Ho ordini ben precisi. Hai scelto?».

«No.».

«Intendi farlo?».

«Anche se lo facessi, sottintendi che l'unico modo per non dover combattere sarebbe scegliere Voi.».

«O Noi». Una voce greve prese parte alla conversazione. Un altro cavaliere mascherato. Mantello e armatura rossa.


“Perfetto.”, pensò. “Ci mancava solo questa. Non ne bastava uno, anche l’altro.”


I due cavalieri erano uno di fronte all’altro, sembravano lo stesso uomo, solo vestito di colori diversi.

Il loro atteggiamento, però, era l'esatto opposto: il cavaliere azzurro era l’emblema della felicità: pur armato di tutto punto, trasudava giocosità; il cavaliere rosso pareva il Dio della guerra: l’armatura lo rappresentava appieno, la sua postura era tesa, il piglio rabbioso.


«Cavalieri, non ho scelto allora e non sceglierò ora».

«Allora dovremo scegliere noi per te.», esordì, con fare diplomatico e serafico, il cavaliere azzurro.

«Dunque ci batteremo, per un Errante», ringhiò il cavaliere rosso, che già aveva sguainato la spada e spronava l’altro cavaliere, pronto a mettersi in gioco.


Il cavaliere azzurro rideva, felice per la nuova e inaspettata sfida. Estrasse la spada dal fodero, con una calma che avrebbe stupefatto qualunque avversario e iniziò la battaglia. Volteggiava, ridendo, mentre l’altro cercava la carne, a mandibole stridenti.


L’Errante non distoglieva l’attenzione dalla lotta in atto; si stavano decidendo le sue sorti. Il vincitore, tra i due, sarebbe stato il suo carceriere o il suo avversario. Nella migliore delle ipotesi sarebbe finito imprigionato in una delle due città; nella peggiore, qualora avesse scelto di non sottomettersi, avrebbe dovuto provare a battere il sopravvissuto per guadagnarsi qualche altro giorno di libertà, con la possibilità, concreta, di perdere la vita da lì a poco.


Anni addietro, la popolazione fu chiamata a decidere tra il voler vivere nell’eterna gioia o nell’eterna rabbia. Si era deciso di non mischiare più i sentimenti, per evitare le guerre tra chi viveva la vita in maniera diversa e proprio non si capiva. Per alcuni fu facile scegliere, per indole personale. Altri non seppero decidere cosa fosse meglio o peggio e diventarono Erranti: non degni di stare nelle une o nelle altre città.


I cavalieri si alternavano nello spazio, davanti a lui, generando un gran baccano di ferro e grida: provocazioni e ringhi, clangori e tonfi.

“Ma guardali, quei due. I rappresentanti dell’estremizzazione, delle nuove fazioni: uno intriso di felicità. Sempre. Perennemente gioioso. Al punto che dà fastidio. Sembra una statua di cera. L’altro un magma di rabbia, consumato dalla preoccupazione e dall’ansia.”.

Mentre osservava i colpi di spada, l’Errante si rese conto che, ancora, non avrebbe saputo cosa scegliere. Passava le sue giornate oscillando tra talmente tanti stati d’animo che gli sembrava così naturale provarli tutti da non sapere davvero a quali avrebbe potuto rinunciare. A lui sembravano tutti belli. Dalla pace, attraverso la gioia, la gratitudine, il disappunto, fino allo sdegno, alla rabbia: tutto gli sembrava indispensabile, per vivere e relazionarsi al mondo. La gamma delle sue emozioni era ciò che lo aveva fatto sentire vivo, che gli aveva permesso di diventare più forte, di affrontare delle sfide, di non cedere alle paure, di sorridere delle piccole cose, di stare in guardia ed evitare pericoli, di difendersi, di cogliere la meraviglia e di non perdere la curiosità nei confronti di quello che lo circondava.


Formulava questi pensieri, mentre i cavalieri proseguivano nello scontro. I colpi, dapprima incapaci di affondare nelle parti scoperte delle armature, ora iniziavano a trovare aperture.

Il cavaliere azzurro fu il primo a trovare una via tra le maglie avversarie. Lo colpì all’esterno della coscia, sopra al ginocchio.

L’Errante si schiantò a terra. Il sangue scorreva dal suo ginocchio sul pavimento di Castel Sant’Angelo. Incredulo guardò il cavaliere rosso che, invece, non aveva avuto nessun cedimento, anzi: stava giusto affondando la punta della lama proprio sotto al costato del cavaliere azzurro. Quest’ultimo scivolò via, quasi danzando, mentre l’Errante perse la capacità di respirare, per qualche secondo, che a lui parve infinito.

«Basta!», urlò con tutta la rabbia provocata dal dolore.

I due cavalieri arrestarono lo scontro e si concentrarono su di lui. Lo trovarono accasciato a terra, nel suo stesso sangue. Quella situazione era una sorpresa per tutti.


«Fermi. Ora basta.». L’Errante si alzò. Zoppicava e i suoi respiri erano di affanno, ma, con decisione, andò incontro ai cavalieri. In un solo gesto, d’istinto, tolse loro le maschere che avevano sul volto.

Quello che vide lo lasciò ancora più senza fiato della lama nel costato: entrambi avevano il suo volto.

Giusto il tempo dello stupore e i due cavalieri scomparvero, dissolvendosi.

Lui tornò a terra, tramortito, senza forze.


Castel Sant’Angelo fu invaso da una potentissima luce, divenne accecante. Accanto a lui, ora, c’era quella stessa statua davanti alla quale si era seduto sul ponte. Era come nel fotogramma: tanto luminosa da sembrargli dorata. Di nuovo integra: aveva gli arti e le ali. Le passò sul suo corpo creando una musica dolce. Era tanto tempo che non ne ascoltava e vi si abbandonò, con un sorriso e con sollievo. Chiuse gli occhi e sussurrò una preghiera: chiese l’assenza della separazione, il ritorno della completezza dell’unione. Pregò per l’arte, le emozioni e i loro intensi colori.


Le sue ferite si stavano rimarginando e, con esse, lo sentiva, anche il mondo intero.


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