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Immagine del redattoreSilvia

Il Vodnik e il violino

Le ombre della sera si allungavano su Praga, tingendo di malinconia i tetti e le guglie svettanti della città. L’orologio astronomico batteva le 7,30 e Il sole, tramontato da poco, spargeva nel cielo un’ultima luce rossastra che illuminava le strade acciottolate mentre cedeva il passo al buio della notte. 


Nella penombra, una giovane donna camminava sola con passo spedito verso il Ponte Carlo. Il volto era teso, un po’ stanco, lo sguardo pareva dritto e concentrato, anche se un osservatore attento avrebbe certamente notato che la sua mente era persa chissà dove. La giovane portava la custodia con il violino nella mano destra, aveva l’aspetto trasandato di chi si trova ovunque un po’ per sbaglio, come una pietruzza perennemente trascinata per caso da un posto all’altro dalla corrente del fiume: aveva l’aria idealista e un po’ smarrita degli studenti di materie artistiche o umanistiche. La giovane si chiamava Judita Kelley e frequentava il secondo anno di filosofia all’università di Praga. 


Come per molte cose nella sua esistenza, anche quella era stata una decisione presa senza una reale passione: fin da piccola, la sua vita era stata diretta dal padre, noto docente universitario di filosofia teorica e alchimista di alto rango. Infatti, era stato lui a indirizzare la figlia agli studi filosofici, auspicando che seguisse le sue orme e abbandonasse le passioni artistiche che animavano la ragazza.  


Questo metodo aveva funzionato perfettamente con il primogenito, Andrej, il quale ormai si avviava alla laurea in filosofia matematica ed era destinato a succedergli nella carriera accademica, relegando la passione per l’hockey su ghiaccio a un mero hobby per tenersi in forma. 


Tuttavia, Judita pareva non adeguarsi al modello imposto dalla famiglia: pur studiando con profitto le materie universitarie della facoltà scelta dal genitore, era sempre distratta, sceglieva argomenti di studio che lui non avrebbe mai neanche preso in considerazione. Come riferivano i colleghi, quando la giovane si concentrava dimostrava una mente brillante e curiosa, ma riportava ogni possibile proposta di ricerca alla musica e all’arte, le uniche argomentazioni in grado di accendere realmente il suo sguardo altrimenti vago e un po’ triste. Aveva anche evidenti problemi di socializzazione, che risolveva solo nei gruppi informali di cui era entrata a far parte fin dai primi giorni di frequenza: violino, scultura e poesia.  


In particolare, nel violino dimostrava un vero e proprio talento: Judita era capace di lasciarsi cullare dalle note musicali, prendendo il rumore della città in fermento e trasformandolo in musica celestiale. Almeno, questo era ciò che raccontava chi assisteva i concerti. Suo padre, ossessionato dallo studio del pensiero e dall’alchimia, non aveva mai voluto ascoltarla: riteneva che l’arte fosse una perdita di tempo, un modo astuto dei politici per distrarre il popolo dai problemi reali. 


Nessuno capiva il motivo per cui Judita non si era imposta alla scelta degli studi universitari, specialmente all’interno della comunità accademica. In fondo, la facoltà delle arti e il collegio musicale della città erano rinomati in tutto il mondo.  


In pochi sapevano che la madre era morta dandola alla luce: per non contrariare o far soffrire ulteriormente il padre, Judita si lasciava guidare da lui come dalla corrente della Moldava, senza mai opporsi ma adattandosi alle circostanze che si trovava ad affrontare.

Ciò le consentiva di fluire molto agilmente da una melodia all’altra, da una storia a un’altra, ma le impediva di costruire la sua personalità, di cercare realmente la sua felicità. 


Quella sera aveva tardato: prima aveva studiato per un esame che doveva sostenere da lì a poco, poi aveva occupato l’auditorium per provare le melodie che avrebbe eseguito durante il concerto di inaugurazione dell’anno accademico previsto il giovedì della settimana successiva. Come spesso le capitava, aveva perso la nozione del tempo, rendendosi conto dell’ora tarda solo quando la voce dell’addetto aveva segnalato la chiusura delle porte della struttura, invitando gli eventuali ultimi studenti rimasti a uscire dalle facoltà.

L’ultimo tram le era passato davanti proprio mentre giungeva alla fermata, così Judita stava tornando a casa a piedi, in una Praga quasi deserta. 


…          


Le fredde acque della Moldava scorrevano silenziose sotto il Ponte Carlo, avvolte nella nebbia che ammantava la città come un sudario, prima che scendesse la notte. Nella penombra di un vicolo cieco della città vecchia, Tomas si stringeva il cappotto attorno al corpo, cercando di scacciare il freddo notturno che saliva dal fiume e gli penetrava nelle ossa. Aveva trascorso la notte precedente insonne in un alberghetto mal frequentato della capitale, tormentato da incubi in cui un essere mostruoso emergeva dalle acque del fiume, con occhi gialli che brillavano nell'oscurità.


Tomas era un uomo di scienza, un ingegnere chimico che lavorava in un’industria situata fuori città, scettico per natura e poco incline a quelle assurde fantasie da bambino. Non aveva mai mostrato segni di irrazionalità, fino a quando, poche settimane prima, aveva accompagnato alcuni ospiti stranieri a visitare la capitale.  


All’uscita dal Kafka Museum aveva confidato al collega che lo accompagnava di aver notato qualcosa che lo fissava dall’acqua del fiume, un mostro dagli occhi gialli e acquosi. Lui si era messo a ridere, consigliandogli di bere meno Becherovka. Da quel momento, quell’incubo lo stava facendo impazzire, tormentandolo fino al punto di dover consultare uno specialista. Aveva cercato ogni possibile leggenda che parlasse del Vodnik, lo spirito maligno che abitava la Moldava, cercando di convincersi che non poteva essere reale, che niente lo stava perseguitando. Eppure, quella strana inquietudine non abbandonava da giorni, al punto da non riuscire più a recarsi al lavoro dalla paura. Lo psicologo gli aveva suggerito di tornare a Praga e attraversare il fiume, in modo da risolvere la questione una volta per tutte, annientando così quel veleno che si era insinuato nei suoi pensieri. 


Tomas aveva deciso di seguire il consiglio del dottore: aveva preso ferie, trovato un albergo economico a pochi passi dal fiume, aveva girato senza meta per tutta la giornata e ora si trovava lì, al lato opposto rispetto alla sponda da cui stava per salire Judita. 


Si diceva che il Vodnik assumesse le sembianze di un uomo annegato, con la pelle pallida

e livida, i capelli lunghi e alghe ovunque. Individuava le sue prede osservando gli umani dal pelo dell’acqua e aspettando che qualcuno ricambiasse il suo sguardo. Così entrava nella mente della vittima e la tormentava fino ad attirarla sulla riva del fiume, dove la persuadeva ad avvicinarsi con la promessa di esaudire i suoi desideri più profondi - di solito, bramava un po’ di pace. Infine, la trascinava nelle profondità gelide della Moldava, la annegava brutalmente e le rubava l’anima, che imprigionava in ampolle sul fondale del fiume. Più ampolle otteneva, maggiore era il potere del Vodnik. 


Tomas si sforzava di non pensare a queste terribili leggende mentre si dirigeva terrorizzato verso il centro del ponte. Mentre raggiungeva il centro del ponte, Tomas notò una strana figura che si muoveva tra le ombre. Era un uomo alto e magro, con un mantello nero che lo avvolgeva completamente. Il suo volto era nascosto da un cappuccio, ma i suoi occhi gialli brillavano nella penombra come due tizzoni ardenti. Gli stessi che l’avevano fissato pochi giorni prima, dal fiume. 


Tomas si sentì paralizzato dalla paura. Il suo cuore batteva all'impazzata e il sangue gli si gelava nelle vene. L'uomo incappucciato gli si avvicinò lentamente, con un passo silenzioso e spettrale.


“Cosa vuoi?” Tomas chiese con voce tremante.


L'uomo incappucciato non rispose. Si fermò davanti a Tomas e lo fissò sogghignando con i suoi occhi gialli, che emanavano una luce sinistra. 


“Non aver paura,” disse l'uomo con una voce cupa e sibilante. “Sono solo un vecchio amico che è venuto a esaudire i tuoi desideri. Dimmi, cosa desideri?” Gli sussurrò in un orecchio.  


Tomas si coprì le orecchie e si accovacciò per l’improvviso mal di testa lancinante che gli trapanava il cervello. La voce dell'uomo incappucciato era la stessa che aveva sentito nei suoi incubi e che ora lo faceva impazzire dal dolore.  


“Tu... tu sei il Vodnik?” Tomas chiese con un filo di voce, desiderando in cuor suo che quel terribile dolore cessasse, un po’ di pace.  


L'uomo incappucciato sorrise, rivelando una dentatura affilata come quella di uno squalo.


“Sì, sono io” disse. “E tu sei mio.”


Con un movimento rapido, l'uomo incappucciato afferrò Tomas per il braccio e lo trascinò verso il fiume. Tomas si dibatté inutilmente, sfiancato dal dolore alle tempie, ma la forza del Vodnik era sovrumana.


“No!” Tomas gridò in un ultimo impeto di terrore. “Pietà!”


Le fredde acque della Moldava si preparavano ad avvolgerlo come un sudario. Quelle acque sarebbero state la sua tomba. Tomas lottò un’ultima, disperata volta, pronto a esalare l’ultimo respiro. 


Intanto, dall’altra parte del ponte una giovane donna con un violino in mano percorreva il ponte Carlo nella direzione opposta. 


… 


Judita percorreva distrattamente il ponte Carlo, pensando a quanti rimproveri avrebbe subito dal padre per il ritardo, quando il suo sguardo venne attirato da quello strano uomo alto e magro e dall’altro, che si stringeva la testa come trafitto da un infinito dolore. 


Li osservò stupita per qualche secondo, prima di rimanere paralizzata dal terrore: l’uomo alto e magro stava trascinando verso il fiume l’altro, che cercava invano di liberarsi. 

Se non fosse intervenuta, quell’uomo sofferente sarebbe certamente morto in pochi minuti.


Si chiese cosa fare: intorno non c’era anima viva, urlare non sarebbe servito a niente. Per la prima volta in vita sua, era costretta a prendere una decisione. Poteva affrontarlo fisicamente, ma probabilmente sarebbe finita annegata come l’altro. All’improvviso guardò il violino, pensando di tirarlo in testa all’aggressore per attirare l’attenzione, ma qualcosa le diceva che non sarebbe servito a niente. 


Fu allora che ricordò le parole del padre: l’arte serve solo a distrarre la gente. 


Istintivamente aprì la custodia, prese il violino e iniziò a suonare una melodia dolce e triste come le ombre che si allungavano sul ponte Carlo. Era una preghiera sulla pace, un accorato appello a fermarsi prima di fare del male o uccidere qualcun altro.  


Tomas era paralizzato dal dolore e dalla paura, incapace di muoversi o di parlare. Il Vodnik era ormai pronto ad annegarlo, privandolo dell’anima per accrescere il suo potere lui, le sue fauci erano spalancate in un sorriso malvagio.


All'improvviso, un suono di violino si diffuse nell'aria, una melodia dolce e triste che contrastava con l'orrore della scena. La creatura si fermò, le sue orecchie tese verso la musica.


Da un angolo buio del ponte, emerse una figura con un cappotto di lana scuro che suonava un violino. Era una giovane donna, con lunghi capelli castani e gli occhi concentrati, illuminati da una strana luce.


La ragazza continuò a suonare, la sua musica che riempiva l’aria circostante di una vibrante energia.


La creatura, come incantata, si allontanò da Tomas, mentre i suoi occhi gialli fissavano la donna con un misto di timore e di fascino.

Lei, però, era troppo presa dalla sua musica per prestargli attenzione. 


La musica continuò per lunghi minuti, fino a quando il Vodnik non scomparve completamente nelle acque del fiume. Tomas, ancora scosso dalla paura ma finalmente libero dal dolore e dagli incubi, guardò la ragazza con gratitudine.


“Grazie” disse con voce tremante. “Mi hai salvato.”


Judita sorrise timidamente, mentre riponeva il violino e si apprestava ad andarsene.

“Non è stato merito mio. É stata la musica. La musica ha il potere di allontanare anche le creature più oscure.”


Tomas non dimenticò mai quella notte. Da quel giorno, imparò ad apprezzare le arti, oltre alla scienza: ogni volta che sentiva suonare un violino, ricordava la creatura del fiume e la donna che lo aveva salvato con la sua musica. Si trasferì a Praga e trovò lavoro in una ditta che si occupava di restauro di quadri e opere artistiche. Aveva imparato che, anche nel cuore della città più bella, l'orrore e la bellezza possono coesistere, in un equilibrio fragile e affascinante.


Quella sera, Judita arrivò a casa più tardi del solito, facendo spaventare a morte suo padre, che non aveva idea di che fine avesse fatto sua figlia. Forse fu lo spavento a renderlo più morbido, lasciandosi convincere dalla figlia a concederle di cambiare percorso di studi, scegliendo la musica e le arti come sue materie di studio e di vita. 



-Silvia-


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