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Immagine del redattoreSilvia

Edipo ai giorni nostri.




Anne, per evitare di addormentarsi insieme a incubi e oscure paure mentali decise di proseguire le passeggiate alla scoperta degli strani ospiti dell’ospedale, rinchiusi come lei.

Il Signor P., di cui nonostante i farmaci sentiva la perenne presenza al suo fianco, era stranamente silenzioso.


Si avvicinò a una stanza apparentemente anonima, la cui porta era socchiusa.

A guardarla da vicino, in effetti, l’ingresso alla stanza pareva una colonna in stile corinzio, con lo stipite adornato come un capitello, con foglie di acanto e tralci d’uva che scendevano lungo quella che pareva un'antica colonna di marmo bianco.

Anne si soffermò sullo scritto che trovò appeso alla maniglia, una “nota per gli operatori”.


NB: ospite potenzialmente aggressivo e manipolatorio.

Prestare la massima attenzione.

Livello di precauzione richiesto: 5/5

Nome e cognome: Demetrios Kalispera


Anne entrò nella stanza in silenzio, respirando la stessa solennità che gli antichi provavano entrando nei templi dei loro dei.

Accovacciato sul letto, un uomo di età indefinita pareva in profonda meditazione.

I lunghi capelli scuri ne nascondevano parzialmente il viso, come un vero sacerdote di un tempio.

Al suo ingresso, spalancò immediatamente gli occhi scuri, dello stesso colore degli olivi; immediatamente li sbarrò, indicando spaventato un punto indefinito alla destra di Anne.

“Dio mio! Io… Io non sono degno!”

Detto questo si prostrò ai piedi di Anne, che subito indietreggiò spaventata mentre già sentiva che il Signor P. gonfiava il suo ego. Dunque, non era l'unica a vederlo, pensò mentre guadagnava l'uscita.

“T… Ti prego, ancella. Non te ne andare. Non portarmelo via. Resta e ascolta la mia storia. Poi, se potrai mi racconterai la tua.”

Spinta da una forza remota e incuriosita da quello strano incontro notturno, Anne si accucciò su una sedia posta accanto alla porta.

Demetrios, sollevato, si sistemò sul letto e si apprestò a raccontare la sua storia.


Nella regione della Tessaglia, nascosto tra montagne rocciose e foreste millenarie, si trova il piccolo villaggio di Oedipia, dove sono nato.

Fin da piccolo ho capito che qualcosa non andava: quando dicevo ai miei compagni della scuola in città che arrivavo da lì, loro mi lanciavano sguardi terrorizzati e non mi rivolgevano più la parola. Questo luogo isolato, infatti, era noto per un’antica maledizione che pervadeva ogni granello delle sue terre, o almeno così mi aveva raccontato mia madre, la mia unica amica.

Forse è grazie a quelle storie che mi sono appassionato alla mitologia: appena ho potuto sono andato via, a studiare storia antica ad Atene.

Sono tornato al paese solo dopo la laurea, per quella che doveva essere una vacanza riposante. Desideravo prendere mia madre e andare via, vivere con lei ad Atene, togliendo quella tristezza che sentivo che le stritolava il cuore.

Però lei non voleva saperne.

In più, quei sussurri, quelle storie che serpeggiavano nella valle non mi lasciavano in pace: volevo scoprire la verità che si celava dietro quegli inquietanti racconti.

Mia madre, Leda, era sempre stata una creatura enigmatica, solitaria, il cui comportamento aveva alimentato numerosi pettegolezzi tra i paesani. Alcuni dicevano che fosse una strega, altri che fosse pazza, ma nessuno conosceva davvero la verità o osava rivolgerle la parola, soprattutto dalla mia nascita, quando - si diceva - aveva ucciso mio padre in preda al delirio del parto.

A quell’epoca pensavo che fossero tutte fesserie, e che mia madre fosse solo una povera ma stupenda donna che aveva perso il marito a causa del suo suicidio. Mi aveva cresciuto al meglio, con Amore infinito, dandomi l’opportunità di studiare e di creare la mia strada: tornare era stata una mia scelta, ma lei mi accoglieva con lo stesso amore di sempre. Qualsiasi cosa facessi, restavamo sempre noi due contro il mondo.

C’erano delle sere in cui beveva troppo, fino a perdere i sensi, ma con quello che aveva dovuto affrontare non la biasimavo.

Una notte, dopo averla messa a letto ed essere rimasto un po’ coricato accanto a lei - prendeva sonno solo così, mi alzai dal nostro giaciglio: non riuscivo a dormire.

Iniziai a vagare per la casa, illuminata solo dalla pallida luce della luna.

Senza un reale motivo mi addentrai verso la cantina, un luogo che da piccolo evitavo perché mi terrorizzava.

Su un vecchio tavolino sgranocchiato dai tarli trovai un’antica pergamena leggermente mangiucchiata ai bordi, sigillato da uno stemma che non riconoscevo.

Sembrava che fosse sempre stata lì, ad aspettarmi.

Una persona saggia l'avrebbe lasciata dov'era. Invece la presi e decisi di esaminarla in camera, mentre già percepivo che una forza sinistra si appoggiava sulla mia spalla, esattamente come il dio che ora si appoggia sulla tua, ancella.

Scacciai quella sensazione, classificandola come semplice suggestione.

In camera staccai il sigillo, facendo attenzione a non romperlo, e aprii quello che pareva un vecchio manoscritto.

Era scritto in greco arcaico, una lingua che per fortuna o per destino avevo studiato all’università.

Parlava di un culto segreto dedicato a Edipo, re di Tebe. Il manoscritto descriveva rituali macabri e sacrifici, ma ciò che mi colpì di più fu un passaggio che sembrava fare riferimento a me e mia madre.

Si narrava di una donna destinata a perpetuare una maledizione, a vivere un amore proibito con il proprio figlio, destinato a compiere un tragico destino dopo un lungo viaggio lontano da casa. Di un padre ucciso durante il parto di questo figlio maledetto. Del suo sangue versato in onore di Dioniso.

Mio padre, mi avevano raccontato, era stato scoperto dissanguato e privo di vita subito dopo la mia nascita, proprio sull'altare del vecchio tempio del dio.

La mia mente rifiutava di credere che potesse esserci del vero, ma un sospetto inquietante iniziò a insinuarsi nel mio mondo perfetto.

Deciso a trovare delle risposte, iniziai a indagare sulla storia del villaggio e sulla mia famiglia.

Scoprii che Leda - mia madre - era stata trovata da bambina ai margini del villaggio, abbandonata e coperta di sangue. Cresciuta dagli abitanti, era sempre stata considerata una straniera, una figura avvolta nel mistero e pericolosa.

Mio padre, cacciatore del villaggio - anch'egli solitario e magico, secondo i compaesani, se n'era però perdutamente innamorato e l'aveva sposata proprio per dimostrare l'infondatezza di tali accuse. Tutto era andato bene, fino al mio concepimento.

In quel momento, si diceva, entrambi erano completamente impazziti, avevano cominciato a eseguire riti strani e a isolarsi ancora di più dal resto del villaggio.

Dopo la morte di mio padre, io ero divenuto l'unico vero Amore di Leda.

Qualche notte dopo, dopo essermi coricato nuovamente con lei, uscii ad esplorare i dintorni. Camminai fino a una vecchia caverna, dove trovai l’altare di Dioniso: la roccia era ancora impregnata del sangue di mio padre.

Sulle pareti, erano incisi gli stessi simboli e iscrizioni della pergamena, molti dei quali richiamavano il culto di Edipo. Al centro dell’altare, un’antica maschera di metallo lucente mi fissava, con un ghigno sinistro che deformava le labbra.

Sentii la paura attraversarmi la spina dorsale, ma anche una strana sensazione di familiarità.

All'alba tornai a casa, svegliai mia madre e la costrinsi a raccontarmi la verità.

Leda, pallida e tremante, mi rivelò di essere lei stessa vittima e carnefice della maledizione, costretta a ripetere il destino di Edipo e Giocasta.

Seguita da sempre dal dio, per tutta la vita aveva cercato di respingere la follia che nascondeva il suo animo, fino a perdere del tutto il controllo. Subito dopo la mia nascita, aveva assassinato mio padre e si era perdutamente innamorata di me al primo sguardo. Aveva cercato di proteggermi, di mandarmi lontano, ma quando ero tornato aveva capito di non avere scelta.

Mi rivelò anche che mio padre non era un uomo qualunque, bensì l’ultimo discendente di una linea di sacerdoti devoti al culto di Edipo. Ed io ero il suo erede, l'unico che poteva trovare una nuova ancella.

Combattuto tra l’amore per mia madre e l’orrore della verità, decisi di affrontare il destino.

Compresi che l’unico modo per spezzare la maledizione era distruggere l’altare, la maschera e l'ancella, annientando così il potere che ci teneva prigionieri.

Con l'inganno convinsi Leda, mia madre, a venire con me nella caverna.

Portai con me un coltello, una torcia e un martello. Mentre mi avvicinavo all’altare, sentii una presenza oscura avvolgermi, gli occhi vuoti della maschera di Dioniso si animarono e presero possesso della mia anima.

Giuro che iniziò a ghignare e a ripetermi “uccidila. Uccidi l’ancella. Uccidila”.

Con un urlo di determinazione, trascinai mia madre sull’altare, alzai il coltello e mi apprestai a colpirla. Avvicinai la lama al suo collo, alzai il braccio, la fissai negli occhi un’ultima volta e… Lasciai cadere il coltello.

Non potevo.

Non potevo uccidere mia madre.

Intanto la maschera urlava dentro la mia testa, un rumore sempre più insopportabile. Afferrai il martello e colpii la maschera, spezzandola in mille frammenti.

La caverna tremò, un grido spettrale risuonò tra le montagne.

Prima di poter salvare mia madre, un’enorme roccia crollò sull’altare, schiacciando lei e distruggendo tutto quanto intorno.

Non avevo rispettato il culto: avevo infranto il patto con il dio e nemmeno avevo compiuto l'estremo sacrificio.

La follia sarebbe stata la mia condanna, finché non gli avessi portato un’altra ancella degna del sacrificio.

Sono scappato dal villaggio, deciso a lasciarmi tutto alle spalle.

Eppure, questa voce folle da allora non mi abbandona mai.

Per anni ho attirato, adescato e gli ho sacrificato ancelle, traendone peraltro un… Certo piacere.

Ma nessuna era mai pura, nessuna era mai davvero degna.

Nessuna… A parte te.

Il tuo sacrificio sarà la mia liberazione!


Da sotto il materasso su cui era accucciato, con una luce gelida e omicida che ne oscurava lo sguardo, Demetrios estrasse una lama affilata e dalla filatura antica, scagliandosi fulmineo contro Anne, che ora guardava atterrita la morte che stava per sopraffarla.

Proprio nell’attimo in cui il coltello stava per traforarle il collo, un’altra forza, molto più antica e misteriosa, essenza della natura stessa, lo spinse ad allontanare l’arma da lei, a ballare con essa fino a trafiggersi in migliaia di punti, schizzando sangue dappertutto e togliendosi infine la vita, in preda alla totale follia e atroci sofferenze auto inflitte.


Anne osservava in silenzio il sangue che ancora schizzava dal cadavere di Demetrios.

Non sapeva se restare, se chiamare la vigilanza, percepiva l’ansia e il dolore che le salivano lungo la schiena.

Una voce alle sue spalle emise un sospiro sottilmente compiaciuto ma anche leggermente rattristato.

Un sospiro che non gli aveva mai sentito fare prima.


“Forse… Forse ho esagerato un po’, con Leda. Non mi aspettavo che finisse così. Sembrava così forte. E invece mi ha respinto, sempre. Fino alla fine.

E guarda il disastro con suo figlio.

Povero Demetrios. Pensava che fossi io a parlargli, quando invece…

Era la voce folle di sua madre.

Ti somigliava, sai?”


Anne non ebbe bisogno di voltarsi per vedere il sorriso egoista che si allargava sul viso di quel maledetto Signor P. O Pan. O Dioniso, o come diavolo si faceva chiamare.

Decise che per quella notte ne aveva avuto abbastanza di deliri e tragedie.

Si alzò dalla sedia su cui era ancora accucciata.

Spense il cervello, sforzandosi di non ascoltare altro, per quella notte.

Con passo deciso tornò in corridoio, schiacciò il bottone dell’emergenza e si rifugiò in camera prima dell’arrivo degli operatori.

Ingoiò le pillole di sonnifero che erano ancora sul suo comodino e si abbandonò a un sonno senza sogni.

Il Signor P. non la fermò.

Sapeva che non era ancora finita.

Per quella notte la lasciò riposare, preda di quelle strane formule chimiche che annebbiavano cervello e sentimenti.



Gli inservienti ci misero una settimana a bonificare la stanza dal sangue del Dott. Demetrios.

Il suo incidente fu classificato come suicidio e imputato al senso di colpa per le vittime che in quegli anni aveva adescato e ucciso.


- Silvia F. -


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